Il detto “chi bello vuole apparire, un po’ deve soffrire” pare interessare da sempre solo il mondo femminile. La storia, infatti, dimostra che il gentil sesso è sempre dovuto sottostare a codici di abbigliamento, e non solo, davvero rigidi per poter portare alto il suo essere donna e il suo status quo.

La subordinazione delle donne agli uomini non è stato solo un fenomeno politico e limitato al focolare domestico, ma ha abbracciato anche, e soprattutto, il mondo della moda. Sin dai secoli che furono, una donna, che tale si rispettasse, era costretta a indossare un abbigliamento restrittivo che ne limitasse volutamente i movimenti fisici impedendole di acquisire un certo grado d’indipendenza, quindi di emancipazione. Strati e strati di stoffe, crinoline rigide intorno ai fianchi che gonfiavano le gonne, bustini talmente stretti da provocare malformazioni alle ossa e continui svenimenti e, ancora, gioielli e acconciature tanto pesanti da ridurre la mobilità del corpo: questo e molto altro sono state costrette a sopportare le donne che, in silenzio, fingevano di essere felici pur dovendo dipendere dai mariti anche per camminare.

Rivolte come il Bloomerismo hanno denunciato spesso l’abbigliamento femminile troppo costrittivo, proponendo anche valide alternative come una gonna/pantalone che rispettasse l’etica sociale, ma nessun uomo si curò di dar voce alle donne lasciando cadere qualsiasi movimento di reazione nel dimenticatoio. Nemmeno agli inizi del ‘900, quando si diede la possibilità alle donne di praticare lo sport, la situazione cambiò, anzi, in moltissimi casi, alcune attività sportive furono addirittura bandite perché richiedevano una liberazione del corpo femminile che avrebbe indignato gli uomini e, soprattutto, i religiosi: famoso fu l’esempio della bicicletta, mezzo di trasporto impossibile da utilizzare con le enormi gonne che erano solite indossare le donne. La remota possibilità che una donna iniziasse a vestirsi con un pantalone per poter montare in sella, sollevò le polemiche dal mondo maschile che risolsero la questione impedendo l’uso del mezzo.

La liberazione del corpo femminile dai codici di abbigliamento rigidi sarà molto graduale e incontrerà non pochi ostacoli. Oggi la questione sembra in parte risolta, assistendo addirittura a un annullamento delle differenze tra gli abiti maschili e femminili, ma le regole imposte alle donne dalla moda, e non solo, non devono finire nell’oblio. Karl Lagerfeld lo sa bene e, nella sfilata di Chanel dedicata alla presentazione della collezione SS 15, lo scorso settembre, ha inscenato un corteo di modelle che urlavano “Femministe e femminili“. Questa dovrebbe diventare una legge incontrovertibile in tutto il mondo perché un pantalone non compromette in assoluto lo charme e la raffinatezza di una vera donna, semmai è simbolo di una forza che nessun uomo sarebbe in grado di raggiungere: la maternità.

Oggi, nel giorno dedicato alla festa della donna, l’invito è quello di riflettere realmente sul significato di questa giornata e di cercare di arginare un fenomeno culturale che rimane, ahimè, ancora troppo radicato nel nostro Paese.

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